L’UE MASSACRA ANCORA L’ITALIA. BANDITE LE NOSTRE ARANCE

Fuori le arance italiane dentro quelle africane. L’UE massacra nuovamente il sud Italia nel silenzio di media e politica.

Da Euroscettico

La concorrenza sleale del Nord Africa e i burocrati Ue hanno trasformato gli aranceti siciliani in cimiteri. Fuori le arance italiane dentro quelle africane.

Nel cimitero delle arance abitano solo mosche e api. C’è un ronzio implacabile tra le foglie degli alberi e la polpa marcia brucia al sole come una ferita. La buccia è maculata, arancio e grigia, o spianata e bruna, quasi assorbita dalla terra. Sono abbandonate nell’erba, distese a perdita di sguardo.

«Tra due anni qui non ci sarà più niente», è la drammatica previsione di Angelo Cuniglione, produttore di arance e limoni. Da quando aveva tredici anni gli è saltato in testa di recuperare l’azienda di famiglia fallita e ora con la BigFrù guida una quarantina di operai su sessanta ettari di coltivazioni di arance e limoni.

Oltre il 30% degli agrumeti nella piana di Catania è abbandonato. Non ci sono i soldi nemmeno per raccogliere le arance: le enormi, succose arance della Sicilia rimangono sugli alberi, appassiscono e rotolano a terra, disegnando una scia colorata razziata da sole, vento e animali, lungo infiniti ettari di aziende agricole, come palline da tennis sparate a casaccio. Le responsabilità del disastro sono di tanti: dalla concorrenza dei Paesi africani (Tunisia e Marocco) alle politiche dell’Ue che causano molti danni alla nostra economia.

 

LA GRANDE SVENDITA

È un mercato in perdita. Le spese di produzione superano del doppio i ricavi di vendita. Un tracollo. Per chi raccoglie, ai 20 centesimi del costo di produzione bisogna aggiungerne 18 per le fasi successive fino alla lavorazione e alla selezione dei calibri. E anche per le aziende che imballano e spediscono i frutti – qui sono altri 45-50 centesimi al chilo -, i ricavi sono nulli se non per le arance di grosso calibro, le 72, che si vendono a 90 centesimi.

Al mercato all’ingrosso di Catania, uno dei più grandi del sud Italia, le arance siciliane vanno via a 70 centesimi al chilo, addirittura a 50 al mercato del pesce del porto: c’è un angolo, lungo gli archi della Marina, dove sono esposte su assi ballerine poggiate su cassette di plastica. Qualche volta anche sui cofani delle macchine. Quando i venditori abusivi vedono le telecamere i vigili li fanno spostare, altrimenti li lasciano fare. «Spesso sono arance razziate dai campi», ci spiega Giovanni Pappalardo, responsabile Coldiretti della città etnea. Sono prese da quelle aziende agricole dove i frutti imputridiscono a terra. Chi è del settore parla di incursioni notturne che ancora continuano a opera di ambulanti senza autorizzazione. In altri casi, le arance non raccolte di bassa qualità sono vendute «a 5 centesimi dalla pianta», o addirittura regalate dai produttori, per pulire i campi.

 

IL PARADISO DISTRUTTO

Per arrivare all’agrumeto delle arance morte si lascia la strada da Ragusa a Catania prima di Francofonte, nella piana di Lentini, lì dove l’orizzonte è solcato dall’ombra del’Etna, oltre distese di serre di uva da tavola. Sembra impossibile che la regione degli agrumi che sembrano soli e dei pomodori più saporiti del pianeta abbandoni la sua ricchezza. La Sicilia si piega alla concorrenza famelica dei Paesi del Nordafrica, agevolati da dazi sempre più bassi (azzerati quelli dell’olio per la Tunisia), da accordi bilaterali vantaggiosi, come per il Marocco, e a un embargo russo alla Turchia che riversa così sull’Europa, e sull’Italia in particolare, ciò che un tempo prendeva la via di Mosca.

«Questa – ci spiega Angelo – è una terra dalle proprietà organolettiche eccezionali». Terra e acqua insieme, un miracolo della natura. Fino all’anno della disgrazia. «Non so se andremo avanti. Come noi molti altri». Suona come una resa definitiva.

Secondo un recente rapporto di Nomisma, dal 2000 a oggi gli italiani hanno rinunciato a 1,7 milioni di tonnellate di frutta, a un ritmo del -1 per cento ogni anno. Ma oltre a queste cifre non consolanti, la merce italiana, e quella siciliana in particolare, deve affrontare una concorrenza spietata: sfidare i prezzi irrisori della frutta e della verdura che arrivano da Paesi dove il costo della manodopera non supera i due-tre dollari l’ora contro i 6-7 euro di quella italiana, dove si produce con costi base molto bassi, che mette sul mercato merce contraffatta e spacciata per italiana, e infinitamente meno soggetta a controlli. «Non abbiamo la minima idea di quello che arriva da fuori», spiega Mario Guidi, presidente nazionale di Confagricoltura, in macchina durante una lunga ispezione in Sicilia, tra le melanzane e i pomodori abbandonati nella zona di Punta Secca e le arance calpestate dal sole lungo la strada per l’aeroporto di Fontanarossa: i frutti appassiti e non raccolti cadono addirittura sull’asfalto della Statale, ci mostra Sandro Gambuzza, ex presidente di Confagricoltura Ragusa e guida nello strazio della Sicilia. «La verità – ammette Guidi – è che l’Expo per noi è stato un danno perché ha distratto la classe politica per un anno».

 

Fonte euroscettico.com