La Nostra Libertà? “Noi ce l’avevamo Già”. La saggezza degli indiani d’America

Tratto dal libro La saggezza degli indiani d’America

Gli indiani d’America (parte I)

L’apprendimento

Ai bambini si insegnava che la vera cortesia doveva essere espressa con le azioni piuttosto che con le parole. Era loro proibito frapporsi tra il fuoco e una persona anziana o un ospite, parlare mentre altri parlavano, prendere in giro una persona deforme o sfigurata. Se un bambino lo faceva senza volere, uno dei genitori lo rimproverava subito sottovoce.

Espressioni come «scusate», «perdonatemi» e «mi dispiace», che ora sono usate spesso alla leggera e inutilmente, non esistono nella lingua Lakota. Se per sbaglio qualcuno feriva o creava disturbo a qualcun altro, diceva la parola wanunhecun, «errore». Questo era sufficiente per indicare che non intendeva essere scortese e che ciò che era accaduto era un incidente.

I nostri giovani, allevati in base alle vecchie regole di cortesia, non avevano l’abitudine oggi in voga di parlare senza sosta e tutti insieme. Questo sarebbe stato non solo maleducato ma anche sciocco; perché la sicurezza di sé, virtù sociale tanto ammirata, non può essere accompagnata dall’agitazione. Le pause erano rispettate educatamente, e non provocavano nessun disagio o imbarazzo.

Parlando a dei bambini, il vecchio Lakota posava una mano per terra e spiegava: «Sediamo in grembo a nostra Madre. Come tutti gli altri esseri viventi, veniamo da lei. Presto ce ne andremo, ma il luogo dove ci troviamo ora resterà per sempre». Così anche noi imparavamo a sedere o coricarci per terra e a prendere coscienza della vita intorno a noi nelle sue molteplici forme.

A volte noi ragazzi sedevamo immobili e guardavamo le rondini, le minuscole formiche o qualche animaletto che si affaccendava, e riflettevamo sulla sua ingegnosità e ingenuità; oppure ci sdraiavamo sulla schiena e studiavamo a lungo il cielo, e quando apparivano le stelle cercavamo di costruire delle forme con le varie costellazioni.

Tutto era dotato di personalità, sebbene in forma diversa dalla nostra. La conoscenza era insita in tutte le cose. Il mondo era una biblioteca e i suoi libri erano le pietre, le foglie, l’erba, i ruscelli, gli uccelli e gli animali che condividevano con noi le tempeste e le benedizioni della terra. Imparavamo a fare ciò che solo lo studente della natura impara, cioè a coglierne la bellezza. Non maledivamo mai i temporali, i venti sferzanti, il gelo pungente o la neve. Così facendo avremmo sottolineato la futilità umana, quindi, qualunque cosa accadesse, ci adattavamo, compiendo sforzi e impiegando energie supplementari se necessario, ma senza lamentarci.

Neppure il fulmine ci minacciava, perché quando si avvicinavano troppo, madri e nonne in ogni tipi mettevano sulle braci foglie di cedro, e la loro magia teneva alla larga il pericolo. I giorni luminosi e i giorni bui erano entrambi espressione del Grande Mistero, e gli indiani amavano essere vicini alla Grande Santità.

L’osservazione aveva la certezza di essere ricompensata. L’interesse, la meraviglia, l’ammirazione crescevano, e si apprezzava il fatto che la vita non si riducesse alla semplice manifestazione umana; si esprimeva in una grande varietà di forme.

Questa comprensione arricchiva la vita dei Lakota. L’esistenza era vivace e vibrante; nulla era casuale e banale. L’indiano viveva – viveva in ogni senso del termine – dal primo all’ultimo respiro.

Capo Luther Orso in Piedi
Sioux Oglala

 

Quale bambino non vorrebbe essere un indiano per un po’, quando pensa alla vita più libera al mondo? Eravamo studiosi attenti della natura. Analizzavamo le abitudini degli animali proprio come voi studiate i libri. Guardavamo gli uomini del nostro popolo e ci comportavamo come loro nei giochi, poi imparavamo a emularli nella vita.

Nessuno usa i cinque sensi meglio dei bambini cresciuti in mezzo alla natura. L’odorato era sensibile quanto la vista e l’udito. Anche la memoria, nella natura, si sviluppa meglio che in qualsiasi altro luogo.

Da piccolo mi fu insegnato a essere silenzioso e riservato. Era uno dei tratti più importanti da plasmare nel carattere degli indiani. Era giudicato assolutamente necessario per diventare cacciatore e guerriero, e veniva considerato la base della pazienza e dell’autocontrollo. Ci sono volte in cui il nostro popolo si lascia andare all’ilarità chiassosa, ma di norma vigono la serietà e il decoro.

Desideravo diventare un uomo coraggioso proprio come un bambino bianco aspira a diventare un grande avvocato o perfino il presidente degli Stati Uniti.

Mi fu insegnato a rispettare gli adulti, soprattutto gli anziani. Non mi era permesso partecipare alle loro discussioni, e neppure parlare in loro presenza a meno che non mi venisse richiesto. L’etichetta indiana era molto severa, e tra i suoi requisiti vigeva la proibizione di rivolgersi direttamente a qualcuno. Chi desiderava dimostrare rispetto chiamava solitamente la persona con il legame di parentela o un appellativo di cortesia invece che con il nome.

Ci fu insegnata la generosità verso i poveri e il rispetto per il Grande Mistero. La religione era la base di tutta l’educazione indiana.

Charles Alexander Eastman (Ohiyesa)
Sioux Santee

 

Gli usi

Lodi, adulazione, modi esageratamente affettati e parole eleganti e altisonanti non facevano parte della cortesia dei Lakota. L’affettazione era considerata ipocrita, e chi parlava senza sosta era giudicato maleducato e sconsiderato. La conversazione non cominciava mai all’improvviso o in modo affrettato.

Nessuno si precipitava a fare una domanda, per quanto urgente, e nessuno era sollecitato a dare una risposta. Una pausa che lasciasse il tempo di riflettere era il modo realmente cortese per cominciare e condurre una conversazione.

Capo Luther Orso in Piedi
Sioux Oglala

 

La civilizzazione

Il tentativo di trasformazione degli indiani da parte dell’uomo bianco e il caos che ne è risultato sono semplicemente i frutti della disobbedienza dell’uomo bianco a una legge fondamentale e spirituale.

La «civilizzazione» mi è stata imposta fin dai tempi delle riserve, e non ha contribuito per niente al mio senso della giustizia, al mio rispetto per i diritti della vita, al mio amore della verità, dell’onestà e della generosità, né alla mia fede in Wakan Tanka, Dio dei Lakota.

Infatti, dopo che ogni religione è stata divulgata e interpretata, o è stata rivelata a opera di brillanti studiosi, o è stata scritta in libri preziosi e abbellita con un linguaggio elegante e con copertine ancora più eleganti, l’uomo – ogni uomo – si trova comunque di fronte al Grande Mistero.

Capo Luther Orso in Piedi
Sioux Oglala

 

Ascoltate queste parole

Il colore della pelle non fa nessuna differenza. Ciò che è buono e giusto per uno, è buono e giusto anche per l’altro, e il Grande Spirito ha creato tutti gli uomini fratelli.

Ho la pelle rossa, ma mio nonno era bianco. Che importa? Non è il colore della pelle a rendermi buono o cattivo.

White Shield (Scudo Bianco)
Capo Arikara

 

L’anima dell’indiano (parte II)

Dalla prefazione

I primi missionari che vennero tra noi erano uomini buoni, ma erano impregnati della ristrettezza di vedute della loro epoca. Ci bollarono come pagani e adoratori del diavolo, e ci chiesero di rinunciare ai nostri dèi perché erano falsi. Ci dissero perfino che saremmo stati dannati per sempre, se non avessimo abbracciato la loro fede con tutti i suoi simboli.

Oggi, nel XX secolo, siamo meno sprovveduti. Sappiamo che ogni aspirazione religiosa, ogni culto praticato con sincerità ha un’unica fonte e obiettivo. Sappiamo che il Dio degli istruiti e il Dio del bambino, il Dio delle persone civili e il Dio del primitivo è, dopotutto, lo stesso Dio; e che questo Dio non tiene conto delle nostre differenze, ma accoglie tutti coloro che vivono in modo retto e umile sulla terra.

Charles Alexander Eastman (Ohiyesa)
Sioux Santee

 

Lo spirito

Natura e solitudine

Come figli della natura, abbiamo sempre considerato la concentrazione della popolazione come la madre feconda di tutti i mali, morali così come fisici. Non è stato, quindi, solo per ignoranza o per mancanza di lungimiranza che non abbiamo edificato città stabili o sviluppato una civiltà basata sui beni materiali. Crediamo da sempre che il cibo sia prezioso ma che la sazietà uccida; che l’amore sia un bene ma che la lussuria distrugga; e che il contatto troppo stretto con i propri simili causi la perdita di forza spirituale, non meno temibile delle epidemie che si sviluppano dove troppe persone vivono in luoghi malsani.

Tutti coloro che vivono parecchio all’aria aperta, indiani o no, sanno che si accumula una forza magnetica e intensa nella solitudine, ma che essa si volatilizza quando si vive in mezzo agli altri. Anche i nostri nemici hanno riconosciuto che, per via di una certa forza e di un equilibrio innati, del tutto indipendenti dalle circostanze, gli indiani d’America sono ineguagliati tra tutte le razze.

 

L’apprezzamento della bellezza

Nell’apprezzamento della bellezza, molto simile al sentimento religioso, l’indiano d’America è unico. Secondo la nostra natura e le nostre convinzioni, non abbiamo la pretesa di imitare l’inimitabile, o di riprodurre esattamente l’opera del Grande Artista. Ciò che è bello non dev’essere alterato, ma va riverito e adorato.

Ho visto nelle nostre celebrazioni di metà estate freschi pergolati edificati con rami appena tagliati, dove si tenevano consigli e danze, mentre coloro che vi prendevano parte si adornavano di rametti con le foglie e portavano scudi e ventagli della stessa materia, e facevano perfino delle ghirlande per il collo dei cavalli. Però, strano a dirsi, usano poco i fiori. Una volta ho chiesto il perché.

«Perché», mi rispose qualcuno, «i fiori sono destinati al piacere delle nostre anime, non a essere indossati sul corpo. Lasciali stare, vivranno la loro vita fino alla fine e si riprodurranno come il Grande Giardiniere ha voluto. È stato lui a piantarli; non dobbiamo raccoglierli, sarebbe egoista».

Questo è lo spirito del nativo americano. Consideriamo la natura la misura della bellezza compiuta, e la sua distruzione un sacrilegio.

Una volta accompagnai un gruppo di capi Sioux a Washington e cercai di impressionarli con le meravigliose conquiste del mondo civile. Dopo aver visitato il Campidoglio e altri edifici famosi, ci recammo alla Corcoran Art Gallery, dove cercai di spiegare che l’uomo bianco considerava questo o quel dipinto come l’opera di un genio e un capolavoro dell’arte.

«Ah!» esclamò un anziano. «Dunque è questa la strana filosofia dell’uomo bianco! Abbatte la foresta che ha vissuto per centinaia di anni in tutto il suo orgoglio e nella sua maestosità, sventra il seno di Madre Terra e rovina e prosciuga i fiumi argentei. Sfigura senza pietà le immagini e i monumenti di Dio, poi impiastriccia di molti colori una superficie piana ed esalta la propria opera definendola un capolavoro!»

Questa è l’essenza dell’incapacità degli indiani di capire la qualità «artistica» del mondo civile. Non è imputabile alla nostra mancanza di immaginazione creativa – perché in questo siamo artisti nati – ma piuttosto al nostro punto di vista. La bellezza ai nostri occhi è sempre fresca e vivente, perché Dio, il Grande Mistero, in ogni stagione dell’anno veste il mondo di abiti nuovi.

 

La saggezza dei grandi capi (parte III)

Il discorso di Capo Seattle

Il cielo lontano, che ha pianto lacrime di compassione sul mio popolo per innumerevoli secoli, e che a noi sembra immutabile ed eterno, può cambiare. Oggi è sereno. Domani potrebbe essere coperto di nubi. Le mie parole sono come le stelle che non cambiano mai. Qualunque cosa dica Seattle, il Grande Capo di Washington può fidarsi di esse con la stessa sicurezza con cui aspetta il ritorno del sole o delle stagioni. Il Capo Bianco [il governatore Stevens] dice che il Grande Capo di Washington ci manda parole di amicizia e auguri. È gentile da parte sua, perché sappiamo che ha ben poco bisogno della nostra amicizia in cambio. Il suo popolo è molto numeroso. È come l’erba che copre vaste praterie. La mia gente è poca. È simile ai radi alberi di una pianura spazzata dalla tempesta.

Il Grande Capo ci manda a dire che desidera comprare le nostre terre, ma è disposto a lasciarci un territorio abbastanza grande per viverci comodamente. È giusto e perfino generoso da parte sua, perché l’uomo rosso non ha più diritti che debbano essere rispettati. E l’offerta può essere interessante, dato che non abbiamo più bisogno di un territorio vasto. Ci fu un tempo in cui il nostro popolo copriva la terra come le onde di un mare increspato dal vento coprono il fondale costellato di conchiglie. Ma quel tempo è ormai passato da parecchio, così come la grandezza di tribù che sono ormai solo un triste ricordo. Non mi soffermerò, né piangerò sul nostro declino prematuro, né rimprovererò i miei fratelli bianchi di averlo accelerato, perché anche noi abbiamo la nostra parte di responsabilità.

I giovani sono impulsivi. Quando i nostri giovani si arrabbiano per un torto subito, vero o immaginario, e si deturpano il viso con della pittura nera, questo mostra che anche i loro cuori sono neri, e che essi sono spesso crudeli e inflessibili, e che i nostri anziani, uomini e donne, sono incapaci di tenerli sotto controllo. È sempre stato così. Era così anche quando l’uomo bianco ha cominciato a spingere verso ovest i nostri antenati. Ma speriamo che le ostilità tra noi non riprendano mai. Abbiamo tutto da perdere e nulla da guadagnare. Per i giovani la vendetta è una vittoria, anche a costo della vita. Ma gli anziani che restano a casa in tempo di guerra, e le madri che rischiano di perdere i figli, sanno che non è così. Il nostro buon Padre a Washington – poiché presumo che sia ormai nostro padre oltre che vostro, dato che re Giorgio ha spostato ancora più a nord i confini –, il nostro Padre buono e grande, dicevo, ci fa sapere che, se facciamo come desidera lui, ci proteggerà. I suoi coraggiosi guerrieri saranno per noi un muro incrollabile di forza, e le sue meravigliose navi da guerra riempiranno il nostro porto cosicché i nostri antichi nemici a nord – gli Haida e i Tsimshian – smetteranno di spaventare le nostre donne, i bambini e gli anziani. Allora sarà sul serio nostro padre e noi i suoi figli. Ma è davvero possibile questo? Il vostro Dio non è il nostro Dio. Il vostro Dio ama la vostra gente e odia la mia. Circonda l’uomo bianco con le Sue forti braccia protettive e amorevoli e lo conduce prendendolo per mano, come fa un padre con il figlio piccolo. Ma ha dimenticato i Suoi figli rossi, se sono davvero figli Suoi.

Anche il nostro Dio, il Grande Spirito, sembra averci dimenticati. Il vostro Dio rende più forti i vostri uomini ogni giorno. Presto riempiranno tutta la terra. La nostra gente, invece, si ritira come la marea che scende rapidamente e non tornerà mai. Non è possibile che il Dio dell’uomo bianco ami il nostro popolo, altrimenti lo proteggerebbe. I miei uomini sono come orfani che non trovano aiuto da nessuna parte. Com’è possibile allora che siamo fratelli? Come può il vostro Dio diventare anche nostro Dio, ridarci la prosperità e far nascere in noi i sogni di una rinnovata grandezza?

Se abbiamo un padre celeste comune, dev’essere parziale, o si è mostrato solo ai suoi figli bianchi. Noi non l’abbiamo mai visto. Vi ha dato delle leggi ma non ha speso neanche una parola per i Suoi figli rossi, che un tempo popolavano numerosi questo vasto continente come le stelle nel firmamento. No, siamo due razze distinte con origini separate e destini diversi. Abbiamo ben poco in comune. Per noi, le ceneri dei nostri antenati sono sacre, e il luogo in cui riposano è terra consacrata. Voi, invece, vi allontanate dai sepolcri dei vostri antenati, apparentemente senza alcun rimpianto. La vostra religione era scritta su tavolette di pietra dal dito ferreo del vostro Dio in modo che non la poteste dimenticare. L’uomo rosso non è mai riuscito a capirla né a ricordarla. La nostra religione consiste nelle tradizioni dei nostri antenati – i sogni dei nostri anziani, trasmessi loro nelle solenni ore notturne dal Grande Spirito, e le visioni dei nostri sachem – ed è scritta nei cuori della nostra gente. I vostri morti cessano di amare voi e la terra dove sono nati appena oltrepassano la soglia della tomba e vagano al di là delle stelle. Sono presto dimenticati e non ritornano mai.

I nostri morti non dimenticano mai lo splendido mondo che li ha visti nascere. Continuano ad amarne le vallate verdeggianti, i fiumi che mormorano, le magnifiche montagne, le valli nascoste, i laghi e le baie costeggiate dalle piante e non smettono mai di provare un affetto tenero e dolce per gli esseri viventi dal cuore solitario, e spesso ritornano dal Grande Aldilà per visitarli, guidarli, consolarli e confortarli. Giorno e notte non possono vivere insieme. L’uomo rosso è sempre fuggito all’avvicinarsi dell’uomo bianco, come la foschia mattutina si dissipa dinanzi al sole del mattino. Tuttavia la vostra proposta mi pare giusta e penso che il mio popolo l’accetterà e si ritirerà nella riserva che offrite loro. Lì vivremo in pace, perché le parole del Grande Capo Bianco sembrano essere le parole della natura che giungono all’orecchio della mia gente dall’oscurità profonda. Poco importa dove trascorreremo il resto dei nostri giorni. Non ce ne saranno molti. La notte degli indiani si prospetta buia. Non una sola stella di speranza si mostra all’orizzonte. Venti dalla voce triste gemono da lontano. Un destino tetro sembra trovarsi sul cammino dell’uomo rosso e, ovunque vada, udirà i passi del suo distruttore che si avvicinano e si preparerà stolidamente per la fine, come fa la cerbiatta ferita quando sente i passi del cacciatore. Ancora qualche luna, ancora qualche inverno e a piangere sulle tombe di un popolo un tempo più potente e promettente del vostro non resterà nemmeno uno dei discendenti dei molti grandi uomini che un tempo percorrevano questa vasta terra o vivevano in dimore felici, protetti dal Grande Spirito. Ma perché mai dovrei piangere il destino prematuro del mio popolo? Dopo una tribù ne viene un’altra, a una nazione ne succede un’altra, come le onde del mare. È l’ordine della natura, e i rimpianti sono inutili.

Il momento della vostra disfatta è forse ancora lontano, ma arriverà di sicuro. Infatti neanche l’uomo bianco, a cui il suo Dio parlava come a un amico, può evitare il destino comune. Potremmo davvero essere fratelli, dopotutto. Vedremo. Valuteremo la vostra proposta e, quando avremo deciso, ve lo faremo sapere. Ma se dovessimo accettarla, qui e ora pongo una condizione: che non ci venga tolto il privilegio di visitare in qualsiasi momento, senza essere molestati, le tombe dei nostri antenati, amici e figli. Ogni parte di questa terra è sacra per il mio popolo. Ogni collina, ogni valle, ogni pianura e ogni bosco è stato consacrato, in tempi ormai lontani, da un evento triste o felice. Anche le rocce, che sembrano stolte e morte mentre soffocano al sole sulla costa silenziosa, vibrano dei ricordi di eventi importanti legati alla vita della mia gente. E la stessa terra su cui ora vi trovate reagisce con più amore ai loro passi che ai vostri, perché ha raccolto il molto sangue dei nostri antenati e i nostri piedi nudi ne avvertono l’affinità al contatto. I nostri defunti coraggiosi, le madri amorevoli, le fanciulle allegre e spensierate, e anche i bambini piccoli che vivevano qui e che qui sono stati felici per un breve periodo, ameranno quest’ombra solitaria, e al calare della sera saluteranno il ritorno dei vaghi spiriti. E quando l’ultimo uomo rosso sarà morto, e il ricordo della mia tribù sarà diventato un mito tra gli uomini bianchi, queste rive brulicheranno dei morti invisibili della mia tribù. E quando i figli dei vostri figli si crederanno soli nel campo, nel negozio, nell’officina, sulla strada o nel silenzio delle foreste senza sentieri, non saranno soli. Su tutta la terra non c’è luogo dove si possa essere soli. Di notte, quando le strade delle vostre città e dei vostri villaggi saranno silenziose e le crederete deserte, esse si riempiranno della moltitudine di uomini che un tempo le abitavano e che amano ancora questa meravigliosa terra. L’uomo bianco non sarà mai solo. Che sia giusto e che tratti con gentilezza la mia gente. Perché i morti non sono privi di poteri. Morti ho detto? Non esiste la morte. È solo un mondo diverso.

Tratto dal libro La saggezza degli indiani d’America