Che cosa c’entra San Michele con Giuseppe Mazzini? C’entra eccome, perché l’Arcangelo e il politico genovese, così come La Marmora, Garibaldi, San Pietro e altri Santi vengono evocati dai mafiosi durante i rituali di apertura dei summit o dei battesimi per i nuovi affiliati. Mentre esiste una letteratura molto ampia sui richiami dei mafiosi alla sfera religiosa (e a scandagliare bene, almeno per quanto riguarda i Santi, questi nomi non sono gli unici), la formula che inneggia ai tre politici dell’Italia pre-unitaria è stata intercettata e resa addirittura pubblica con un filmato delle forze dell’ordine in occasione di un maxiblitz contro la ‘ndrangheta al Nord. Basta cercare il video su youtube, sebbene con immagini sgranate e audio disturbato ma sottotitolato, per vedere e ascoltare il rito:
“Buon vespero e santa sera ai santisti! Giust’appunto questa santa sera nel silenzio della notte e sotto la luce delle stelle e lo splendore della luna formo la santa catena! Nel nome di Garibaldi, Mazzini e La Marmora, con parole d’umiltà, formo la santa società! Dite assieme a me: “Giuro di rinnegare tutto fino alla settima generazione… tutta la società criminale da me fino a oggi riconosciuta per salvaguardare l’onore dei miei saggi fratelli! In nome di Garibaldi, Mazzini e La Marmora, passo la mia votazione sul conto di … Se prima lo conoscevo come un saggio fratello fatto e non fidelizzato, da questo momento lo conosco per un mio saggio fratello! Sotto la luce delle stelle e lo splendore della luna, sformo la santa catena! Nel nome di Garibaldi, Mazzini e La Marmora, con parole di umiltà, è sformata la santa società!”
In questa formula non si fa cenno, invece, alle gocce di sangue da far uscire dal dito con una puntura, o dal polso con un taglio a forma di croce, per farle cadere su un santino e darlo poi alle fiamme, ricordando che “le mie carni bruceranno come questo santino, se tradirò…”. Questi particolari che non sono presenti sul filmato sono però emersi da alcune testimonianze sul rituale per l’ingresso dei nuovi giovani nella ‘onorata società’. La puntura nel gergo mafioso viene definita “punciuta” o “pungitura” in base ai vari dialetti, ma si rifà a una leggenda ottocentesca in cui tre cavalieri, Osso, Mastrosso e Carcagnosso, scappati dalla Spagna dopo aver lavato con il sangue l’onta subita da una loro sorella, si rifugiarono in Sicilia, nelle Egadi e precisamente nell’isola di Favignana. Per evitare il carcere dove non passava neanche un filo d’aria, si rifugiarono nelle cave di tufo. Lì lavorarono per 29 anni, 11 mesi e 29 giorni alle regole sociali che avrebbero esportato in Sicilia, Calabria e Campania, mutuandole probabilmente da quelle della Garduña, l’associazione cavalleresca fondata a Toledo nel 1412. Secondo la mitologia mafiosa, furono sempre loro a pronunciare il seguente rituale: “Giuro su questo pugnale d’omertà con la punta bagnata di sangue e davanti l’onorata società di essere fedele ai miei compagni e di rinnegare padre, madre, sorelle e fratelli e di adempiere tutti i miei doveri e, se necessario, anche col sangue”.
«Il rituale di affiliazione – spiega Enzo Ciconte, docente di storia della criminalità organizzata all’Università di Roma Tre – serve a nobilitare l’appartenenza a un gruppo criminale. I riti vengono relegati spesso a un aspetto folcloristico e per questo sottovalutati. Rappresentano, invece, l’elemento cruciale secondo cui devono passare tutti gli affiliati. Nel linguaggio mafioso, determinano chi ha potere di vita o di morte e non c’è possibilità di tornare indietro».
Ma esistono episodi reali e situazioni storiche da cui sono scaturiti i racconti leggendari dei tre cavalieri spagnoli? Studiosi e opinionisti concordano nell’identificare la Camorra come matrice comune delle mafie che si sarebbe formata nelle carceri borboniche su imitazione dei comportamenti massonici. Si concretizzava in una sorta di estorsioni fra galeotti per la gestione di alcuni privilegi, come il posto letto, all’interno delle celle.
Isaia Sales, docente di criminalità organizzata presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, lo dice chiaramente: «Questa impostazione di gruppi anarchici slegati gli uni agli altri non è mutata fino a oggi e si spiega così anche l’alto livello di litigiosità al suo interno. La Camorra è l’unica organizzazione disorganizzata. Il frastagliamento sul territorio, anziché indebolire la struttura, la rende ancora più forte. Quando viene sgominata una banda ce n’è subito un’altra pronta a prendere il posto. È la struttura con il più alto rimpiazzo dei boss: un esercito delinquenziale con un ricambio infinito».
Or dunque, secondo questa teoria, la stessa Camorra si ispira alla Massoneria. Sempre Enzo Ciconte nel suo libro “Riti criminali. I codici di affiliazione alla ‘ndrangheta”, presentato a Trame5 il Festival di Lamezia Terme, scrive: «È probabile che i codici siano il lascito dei massoni ai malandrini il cui incontro fu favorito dal carcere. Nei luoghi di detenzione e carcerieri borbonici erano soliti mettere insieme, senza operare alcuna distinzione, criminali comuni e politici che le autorità del tempo consideravano come nemici più pericolosi dei criminali. E invece erano perseguitati, e per scansare le attenzioni della polizia trovarono rifugio nelle sette segrete e nelle logge massoniche. I riti iniziatici, i codici, le espressioni gergali si trasmisero dai massoni ai malandrini». E poche righe più avanti pone la domanda cruciale: «Quanto di questa parlata si travasò nei codici trasformandosi con il passare del tempo in linguaggio mafioso?»
Secondo quanto riportato nei libri di storia e nella Rizzoli-Larousse, è indiscutibile l’influsso della massoneria nel Risorgimento. «Gli appartenenti alla Carboneria e alla Giovine Italia – si legge nell’enciclopedia – erano quasi tutti iscritti alla massoneria; favorevole all’associazione fu Mazzini, e massone fervente fu Garibaldi, che assurse ai più alti gradi». E poche righe più avanti, il testo descrive anche come avvenne l’unificazione della massoneria nei decenni dell’Unità d’Italia: «A opera di A. Lemmi, gran maestro, nel 1874 si addivenne all’unificazione delle varie logge, mettendo così fine alla rivalità fra il Grande Oriente italiano di Torino, il Grande Oriente di Palermo, separatista e repubblicano, e il Grande Oriente di Napoli: tutti confluirono nel Grande Oriente d’Italia detto di palazzo Giustiniani dalla sua sede a Roma». La documentazione che è alla portata di tutti i cittadini comuni testimonia l’importanza e l’influenza della massoneria nelle vicende che hanno costruito la storia dell’Italia, ma nulla dice sulle formule recitative dei rituali di affiliazione. È dunque probabile che le frasi da pronunciare nel rito di affiliazione mafioso siano mutuate dal rito massonico ottocentesco. Non a caso, secondo alcune fonti, il primo codice di affiliazione mafiosa è stato ritrovato in Calabria, a Nicastro, uno dei tre comuni dell’attuale Lamezia Terme, e pare risalire al 1888. Va oltretutto precisato che già a partire dai decenni di fine dell’Ottocento vi erano divisioni e lotte fra la massoneria pro-clericale e quella anti-clericale. Anzi, la lotta al suo interno portò nel 1906 a un grave conflitto al suo interno. In quell’anno, secondo l’enciclopedia Rizzoli-Larousse: «Alcuni deputati iscritti all’associazione non appoggiarono il progetto di legge sull’abolizione delle scuole religiose: ne derivò uno scisma, per cui un gruppo, diretto dal pastore evangelico, Saverio Fera, si distaccò dal Grande Oriente di palazzo Giustiniani e costituì il Supremo consiglio d’Italia di rito scozzese e accettato detto di “piazza del Gesù” e abbandonò la pregiudiziale anticlericale». Nessuno può confermare, ma neanche escludere, che il richiamo ai Santi di cui narra la leggenda dei tre cavalieri spagnoli e ancora presente nelle ‘Battesimi’ dei mafiosi derivi, magari, da un rito massonico del ramo favorevole alla Chiesa. D’altra parte, proprio secondo la tradizione anglosassone da cui ha origine – appunto – la massoneria moderna considera San Giovanni evangelista il suo patrono.
«Il simbolismo durante il rito di affiliazione – scrive ancora Ciconte sempre a proposito del codice mafioso non escludendo la sua mutuazione da quello massonico – era fatto apposta per incendiare la fantasia di giovani illetterati provenienti dalle classi sociali più umili che sognavano d’elevarsi, d’essere riconosciuti, d’essere rispettati. Quella di Osso, Mastrosso e Carcagnosso è una favola inventata che è diventata vera a furia di ripeterla ossessivamente. I codici forniscono un senso di appartenenza e un’idea di comunità per uomini che per emergere e sopraffare il prossimo con la violenza hanno avuto bisogno di un’ideologia e una cultura che ne giustificassero le azioni».