1588: Papa Sisto V impedisce alle donne di esibirsi in teatro, maschi castrati al loro posto

E’ il 1588. Papa Sisto V, con un ordine grottesco da povero prete, impedisce alle donne di esibirsi in teatro, inducendo molti maschi alla castrazione per la sostituzione delle figure femminili (secondo il cardinale Ranuzzi, le donne portavano un «deterioramento grande del costume»). Nascono così le voci bianche da una mutilazione sessuale tipica dei peggiori fondamentalismi. Noto a parte che ai castrati (come agli uomini sterili) era vietato il matrimonio e tale aberrante disposizione è stata abrogata solo nel 1977 (Paolo VI).

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“Questo genere di arte non convinceva però, fra gli altri, Fernandez De Moratin, che in proposito scriveva: «Quelli che fra i ballerini facevano le dame, formavano la più ridicola collezione di mostri; che facce, che corpacci, che piedi! Una delle singolarità dei teatri di Roma è di veder quei mascalzoni calcare le scene, ballare cantare o recitare facendo la parte di dame delicate, di pastorelle, di ninfe e di dee; la modestia ecclesiastica non permette che il bel sesso trionfi sulla scena con le sue grazie seduttrici».

Nelle rappresentazioni di prosa e nelle danze la situazione diveniva talvolta ridicola, perché queste particolari “donne”, che indossavano gonnelle e vesti sbracciate, erano spesso paragonabili a goffi scimmiotti con tanto di barba oltre che, ovviamente, voce e gesti non proprio femminili. Bisogna però ricordare che, nell’economia degli spettacoli, il ballo era allora considerato un elemento secondario, semplice intermezzo che integrava, spesso senza logica e nesso, le rappresentazioni di prosa, tanto che alcuni osservatori stranieri nel Settecento arrivarono ad affermare che i romani confondevano le danze con i salti.

Nel teatro musicale i ruoli femminili venivano invece interpretati dai musici, cantori evirati che colpivano gli osservatori perché a distanza erano veramente ingannevoli. Pur se non tutti amavano le loro voci, i castrati in genere piacevano, e furoreggiavano sui palcoscenici (anche quando interpretavano le parti delle ballerine) divenendo l’elemento predominante del melodramma settecentesco.

Ma la simulazione nel teatro romano assumeva talvolta anche altre forme: Casanova, con il suo occhio “clinico”, un giorno si accorse ad esempio che un comico castrato, tal Bellino, era in realtà una donna. Ovviamente, non si lasciò sfuggire l’occasione per lanciarsi nella sua ennesima avventura.

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Per lungo tempo si è creduto che la prima donna tornata sulle scene romane fosse la soprano Bertinotti, esibitasi al teatro Alibert, ma potrebbe invece essere Angelica Catalano, che nel 1799 cantò l’Ifigenia in Aulide all’Argentina.

Per alcuni secoli furono dunque i castrati a interpretare sulle scene romane molti ruoli femminili. Certo, con la sensibilità dell’oggi appare quantomeno curioso il fatto che all’epoca si potesse considerare meno immorale travestire gli uomini, dopo averli privati del loro sesso, anziché lasciar recitare le donne, ma tant’è. Pur se nel Concilio di Trento la chiesa aveva condannato la castrazione, i cantori evirati furono infatti accettati anche nella Cappella pontificia.

Subita l’operazione verso i sette, otto anni – quando ancora quei poveretti non erano certo in grado di poter decidere della propria sorte – gli evirati acquistavano una incredibile estensione di voce, mentre sul loro corpo comparivano alcuni caratteri secondari femminili.

Fra gli altri furoreggiò Loreto Vettori, sopranista e compositore, maestro di musica di Cristina di Svezia: si racconta che un giorno la popolazione per ascoltarlo abbatté persino le porte di un palazzo dove si doveva esibire in uno spettacolo privato. Amara ironia della sorte, morì vittima di un marito geloso. Viene da dire: oltre al danno, pure la beffa! Eppure questa tragica fine toccò anche ad altri castrati, di cui le nobildonne si innamoravano molto spesso. Più fortunato (si fa per dire!) fu Gaetano Majorana, che riuscì a sottrarsi ai mariti infuriati rifugiandosi a Venezia.

Su questi cantori evirati circolarono voci e pettegolezzi a non finire. De Brosses riferisce che uno di loro presentò a «Innocenzo XI una supplica per ottenere il permesso di ammogliarsi, adducendo quale giustificazione il fatto che l’operazione era stata fatta male; il papa scrisse in margine alla domanda: Che si castri meglio». A un certo punto a Roma circolò anche questo tagliente sonetto anonimo:

«Sarà dunque permesso alli villani nello Stato Papale, impunemente di castrar i lor figli empiamente acciò strillin cantando in modo strano?  Che si castrino i gatti oppure i cani,  un cavallo, un somar, non dico niente, mai i figlioli, per Cristo Onnipotente, ah! son padri assai crudi e inumani!  E Roma soffrirà che nei suoi Stati un mutilato attor dei più bricconi  funga la donna a spasso dei Prelati? Ma se i Prelati vogliono esser buoni castrin piuttosto gli altri Porporati ché il Collegio sarà senza coglioni!»”