USA, Tentarono di cancellare i Nativi fino a pochi anni fa!

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Quello che Nando Minnella ha causticamente definito come uno “sterminio underground” venne portato alla luce solo a partire da un’inchiesta condotta nel 1974 da Connie Pinkerton-Uri, dottoressa indiana di sangue Choctaw e Cherokee. Fu lei infatti a scoprire che nell’ospedale dell’IHS di Claremore (Oklahoma) presso cui lavorava erano state effettuate molte sterilizzazioni involontarie e senza alcuna motivazione apparente.

A questo punto, racconta Pinkerton-Uri, «iniziai ad accusare il governo di genocidio e richiesi insistentemente un’indagine governativa» . Richiesta che venne presa in considerazione da un senatore democratico del Dakota del Sud (James George Abourezk, primo senatore arabo-americano della storia degli USA e allora direttore della Commissione sugli Affari Indiani del Senato). Egli, a sua volta, decise di coinvolgere nientedimeno che il Government Accounting Office (GAO), strumento di investigazione di cui gode il Congresso .Il GAO si mise all’opera il 6 novembre del 1976. Esso esaminò i documenti di quattro dei dodici distretti sanitari serviti dall’IHS: Aberdeen (Dakota del Sud), Albuquerque (Nuovo Messico), Oklahoma City (Oklahoma) e Phoenix (Arizona); concentrando la sua attenzione sul quadriennio che andava dal 1973 al 1976. Il 23 novembre terminò la ricerca. Emerse che erano state sterilizzate 3.406 donne (di cui 3.001 in età fertile) e 142 uomini.

Afferma il GAO: «Abbiamo trovato molte mancanze relative al rispetto delle norme sulla sterilizzazione stabilite dall’HEW», ciononostante «non abbiamo trovato alcuna prova del fatto che siano stati sterilizzati indiani presso l’IHS senza la dichiarazione di consenso del paziente» . Ma è davvero così? Dobbiamo cioè arrivare alla conclusione che negli USA gli indiani non sono mai stati sottoposti alla sterilizzazione coatta? Niente di più falso.

Stephen Trombley, nel suo The Right to Reproduce, sostiene che sono proprio le irregolarità circa l’ottenimento del consenso del paziente che fanno della sterilizzazione una pratica coatta. Vanno cioè considerate forzate quelle sterilizzazioni ottenute:

a) con l’«inganno»;

b) con le «minacce» e i ricatti;

c) quando la procedura volta all’ottenimento del consenso avviene in una lingua che il paziente non può comprendere .

Nel caso delle sterilizzazioni dei nativi americani si sono verificate tutte e tre queste condizioni. Per quanto riguarda gli inganni basti pensare al fatto che spesso ai pazienti fu detto che avrebbero dovuto sottoporsi alla sterilizzazione per ragioni mediche: venivano cioè convinte che altrimenti sarebbero morte, perché affette da malattie in realtà inesistenti o necessitanti di tutt’altra cura. Quanto alle minacce, numerosi furono i casi in cui i medici ricattarono i pazienti. Ad esempio dicendo loro che li avrebbero privati dei propri figli e dei sussidi pubblici. Infine va aggiunta a questa lista la cronica mancanza di interpreti che potessero aiutare i pazienti a comprendere in che cosa consistesse l’operazione .

Da questo punto di vista lo studio del GAO va quindi considerato, come minimo, incompleto. Se non addirittura mistificante. Si aggiunga poi che gli investigatori del governo considerarono solo quattro distretti sanitari dell’IHS su dodici. E che lo studio considerò solo i dati relativi a un breve lasso di tempo, quando invece sappiamo che le sterilizzazioni sono avvenute anche prima e dopo il quadriennio 1973-1976. Ma forse la carenza più grave dello studio del GAO riguarda il fatto che sono state volutamente ignorate le vere parti in causa: le vittime della sterilizzazione coatta. Nessuna di queste è stata intervistata .

Vediamo di rimediare almeno in questa sede. L’esperienza che segue costituisce un esempio perfetto dei raggiri, delle bugie e degli altri mezzi condannabili di cui si avvalgono i medici dell’IHS per ottenere la firma delle pazienti sul modulo di consenso alla sterilizzazione. Dimodoché, almeno sulla carta, risulti tutto regolare. Sarah, l’indiana in questione, è stata sterilizzata senza il suo consenso. In un’intervista rilasciata alla storica nativa Myla Vicenti Carpio, ha raccontato l’inganno di cui è stata vittima in questi termini:

“Avevo una ciste nello stomaco, nell’utero, e mi venne un’appendicite. Andai a sottopormi al controllo generale che faccio ogni sei settimane e lui [il dottore] si mise a spingere contro il mio stomaco ed io iniziai a sentire dolore, così mi disse che sarei dovuta andare all’ospedale a farmi operare, a farmi togliere la ciste […] Mi ricordo di aver firmato un foglio che diceva che mi avrebbero tolto la ciste e l’appendicite; non mi dissero nient’altro che questo”.

Spesso le poche testimonianze di cui godiamo costituiscono anche dei veri e propri atti d’accusa. E non mancano al contempo di sottolineare le cause e le conseguenze delle sterilizzazioni coatte, così come i rimedi che vengono messi in campo per ostacolarle. Diamo la parola all’attivista Lakota Barbara Moore, della riserva di Rosebud (Dakota del Sud):

“Quattro anni fa ero incinta e andai a un servizio di salute pubblica per far nascere il mio bambino. Non era necessario, ma fecero ugualmente nascere mio figlio con un parto cesareo; è tutto ciò che ricordo. Quando mi svegliai dall’anestesia mi dissero che mio figlio era nato morto. Feci effettuare l’autopsia, ma non fu trovata nessuna causa tale da provocarne la morte. Inoltre mi dissero che non avrei potuto avere altri bambini perché avevano dovuto sterilizzarmi durante l’operazione, e quindi senza il mio consenso. In quel momento non potevo dire o fare nulla, ma appena uscita ho cominciato un lavoro di informazione sui pericoli per i nostri bambini, il nostro futuro, e insieme alle altre donne indiane abbiamo cercato il sostegno di tutte le organizzazioni. Molti casi vengono portati in tribunale, ma gli avvocati sono costosi e sono tutti bianchi […] Dire certe cose rende tutto più difficile, perché per rappresaglia intensificheranno le pressioni sulle nostre Riserve. Sono il lavoro sotterraneo di controinformazione, l’unità, la riappropriazione degli antichi metodi (parto in casa), che ci assicurano il rispetto per i nostri corpi e per i nostri figli”.

Appena i nativi vennero a conoscenza dei programmi di sterilizzazione a loro danno, cominciarono a condurre indagini per far luce su questi abusi e comprenderne l’entità reale.

Il Lakota Lehman Brightman, presidente della United Native American (UNA), ha dedicato tutta la vita a studiare questi abusi. Nel 1979 giunse infine alla triste conclusione che negli USA erano stati sterilizzati coercitivamente il 10% degli uomini e il 42% delle donne . Una stima, questa, che è stata confermata non solo dagli studi della dottoressa Pinkerton-Uri, ma anche da quelli delle Women of All Red Nations (WARN) .

Qual è, in conclusione, il numero di sterilizzazioni inflitte ai nativi? Considerando il censimento del 1970 degli indiani d’America (763.594), con particolare riferimento a quelli in età fertile (323.351) , e affidandoci al calcolo di Brightman – che ancora oggi sembra essere quello più affidabile – possiamo ora stimare il numero di indiani sterilizzati negli USA. Ho così calcolato che il 42% delle donne in età fertile equivale a più di 69 mila native. Se a loro si aggiungono più di 15 mila indiani di sesso maschile (cioè il 10% di quelli in età fertile) possiamo concludere che gli USA hanno sterilizzato coattamente più di 85 mila indiani d’America.

Per meglio comprendere le dimensioni di questa barbarie si pensi al fatto che sterilizzare circa 85 mila indiani su una popolazione totale di soli 763.594 – data l’allora popolazione totale di circa 220 milioni di americani non-indiani – sarebbe stato come sterilizzare quasi 24 milioni e mezzo di statunitensi!