ISIS: un fattore di politica economica, a chi giova?

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Mentre Wall Street procede nel confermare la ripresa economica americana e la Fed annuncia il probabile rialzo dei tassi di interesse a dicembre, le borse europee hanno registrato, nei giorni successivi all’abbattimento del jet russo da parte della Turchia, un’immediata flessione dei mercati azionari. L’instabilità del fronte anti-ISIS assieme al pericolo che il terrorismo dilaghi in Europa sembra prospettare un ulteriore ritardo nei tempi di ripresa dell’economia del vecchio continente.

C’è da chiedersi in che misura gli scenari di guerra incidano sulle strategie economiche e sugli interessi dei singoli paesi.

I trend finanziari dell’ultimo secolo fanno degli Stati Untiti il principale beneficiario degli spostamenti di capitale derivanti dai conflitti disseminati nei vari continenti e questo non per un lucido proposito degli investitori ma come conseguenza dell’organizzazione politica, giuridica ed economica del sistema americano che con il ruolo di potenza imperiale e militare, garante della sicurezza globale, si configura a partire dal primo dopoguerra come il centro degli interessi economici dei paesi sviluppati e non.

Occorre osservare come la crisi del 2008 che sembrava preannunciare il collasso dell’economia americana, abbia invece dimostrato che gli Stati Uniti sono in grado di superare le congiunture negative del ciclo economico capitalistico facendo affidamento sulla propria autorità militare e sulla stabilità istituzionale, scaricando sui paesi creditori il peso del proprio debito.

Nonostante gli USA siano indebitati complessivamente tra debito pubblico e privato per 2,7 volte il Pil che ogni anno viene generato, il dollaro resta la valuta più affidabile del pianeta continuando ad attrarre investimenti. L’esibizione del potere militare insieme alla propaganda mediatica costituisce un esercizio necessario all’esistenza stessa dell’economia americana. In questo contesto l’Euro annaspa nel vuoto politico delle istituzioni di Bruxelles che hanno creduto di poter superare il vincolo imprescindibile della moneta, il cui valore intrinseco corrisponde necessariamente alla credibilità e all’autorità politica e militare di chi la emette.

E’ in questo scenario che risulta utile dettagliare quali siano le peculiarità del modello adottato dagli Stati Uniti e quali conseguenze abbiano negli scenari internazionali. Tre sono i caratteri distintivi del modello americano che hanno consentito agli USA di superare la crisi economica che hanno contribuito a creare:

Il Big Government: ossia il ruolo di superpotenza garante della sicurezza e degli equilibri globali. E’ con la prima guerra mondiale che gli USA inaugurano l’interventismo sul fronte internazionale a seguito dello slogan coniato da Wilson “rendere sicuro il mondo per la democrazia”, slogan che diverrà il mantra di tutte le guerre che gli Stati Uniti affronteranno nei decenni successivi. Sul fronte nazionale per garantire la sicurezza del paese, si applicano invece misure restrittive delle libertà personali con l’obiettivo di controllare e orientare l’opinione pubblica (vedi Espionage Act e Patriot act). L’esecutivo procede ad accentrare progressivamente il potere a discapito del parlamento e della rappresentanza democratica e contemporaneamente impone ai media nazionali forti margini su quali e quante informazioni divulgare.
Doppio standard: in ambito commerciale gli USA procedono nell’accentramento del potere economico con l’applicazione del doppio standard nelle transazioni nazionali e internazionali: un forte protezionismo interno sostenuto dal settore pubblico, con un interscambio di manager tra industrie, agenzie federali e talvolta ministeri che rende inesistente il confine tra pubblico e privato e incentiva l’industria oligopolistica quale principale finanziatore dei candidati al Congresso. Il corporativismo dell’industria genera un surplus non ricollocabile sul mercato interno e rende necessario trovare ambiti di investimento all’estero che siano poco regolamentati e quindi aderenti al “libero scambio”. I grossi volumi di capitale americani possono quindi trovare sfogo sui mercati esteri non regolamentati che consentano l’acquisto di settori strategici, risorse primarie, fonti di energia. L’adesione al libero scambio è stata spesso introdotta con politiche dittatoriali nell’America Latina oppure con interventi diretti su aree strategiche come Vietnam e Iraq. In altri casi si ricorre a trattati internazionali di libero scambio come i recenti TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) o TPP (Trans-Pacific Partnership)
il Whashington Consensus e la finanziarizzazione dell’economia con il passaggio dal Gold standard al Dollar-standard. Occorre ricordare che nel 1972 con l’affrancamento del dollaro dal controvalore in oro (e contemporaneamente l’introduzione dell’obbligo di vendere il petrolio in dollari) si è dato inizio ad un nuovo corso della politica economica mondiale che ha avuto ripercussioni più rilevanti della fine della Guerra Fredda. Acconsentire al dollaro svincolato dal valore reale (l’oro) ha significato per i paesi creditori (detentori di dollari e quindi di parte del debito americano) assumere che il dollaro sia una valuta costantemente “forte” e in grado di ripagare i crediti. In alternativa i crediti detenuti diverrebbero inesigibili e costituirebbero una passività in grado di influenzare le sorti delle economie nazionali. Si passa quindi da un sistema fondato sui crediti, dove sono i paesi creditori a dettare la linea politica alla nazione debitrice, ad un sistema dove è la nazione debitrice a dettare le linee politiche e le strategie agli stati creditori, costringendoli a rifinanziarne costantemente il debito. La linea guida della politica internazionale fondata sul principio che “l’America non si farà dettare la politica interna dall’estero”, spesso affiancata alla minaccia del dollaro debole contro quei paesi che non seguono le sue linee guida, viene definita Washington Consensus.
Il modello di sviluppo americano e il colonialismo finanziario imposto con la “dollarizzazione” dell’economia fanno deli Stati Uniti una talassocrazia immune alle crisi globali che tende a generare. Emerge un modello di crescita basato sull’assorbimento di risorse esterne (beni e capitali, commodities e fonti di energia) e finalizzato al finanziamento della domanda interna (i consumi e la spesa pubblica, quella militare in particolare). Se si considera inoltre che le crisi finanziarie hanno effetti dirompenti come e più della guerra, appare evidente che l’esacerbarsi di conflitti locali in aree considerate strategiche, rappresenti per gli Stati Uniti una provvidenziale occasione per esercitare la propria superiorità militare e politica, inaugurare mercati di libero scambio e depauperare le ricchezze dei paesi di nuova colonizzazione finanziaria.

Delineato lo scenario delle dinamiche economiche internazionali, si capisce come sia vitale per gli Stati Uniti che la Siria diventi una nazione di orientamento atlantista, come lo fu per il Vietnam, strategico avamposto americano nel Pacifico. Lo scontro di religioni appare chiaramente una false flag che nasconde un complesso intreccio d’interessi che vanno dallo scontro sciita-sunnita tra Arabia Saudita e Iran, al controllo delle risorse petrolifere del paese, all’occupazione di un’area geopoliticamente strategica, storico crocevia commerciale tra il Mediterraneo e l’Oriente, nonché area d’interessi per la Russia di Putin.

Sul territorio siriano si combatte una guerra per procura che vede le forze foraggiate dagli alleati atlantisti contrapporsi ai principali antagonisti americani di lungo periodo. In primo luogo la Russia di Putin che si è mostrata apertamente ostile al Washington Consensus con il blocco della privatizzazione delle risorse naturali in favore di società estere, la nazionalizzazione dell’industria petrolifera, l’aumento delle riserve in euro invece che in dollari.  Non ultima la Cina che negli ultimi anni ha incrementato la corsa alle risorse strategiche del pianeta in aperta competizione alle industrie oligopolistiche americane e contemporaneamente ha iniziato la vendita dei Treasuries (obbligazioni di debito degli Stati Uniti). E’ di questi giorni l’inclusione dello yuan nel paniere delle valute di riserva globale che pone in maniera determinante l’esigenza per Pechino di esportare la propria moneta all’estero e soprattutto in Europa. I numerosi investimenti in territorio europeo e il controllo statunitense dei mercati asiatici, spingono la Cina a consolidare nuove vie della seta come unico sbocco alla crescente produzione del surplus produttivo non assorbibile dall’immaturo mercato interno.

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