Intorno all’Ilva di Taranto stanno coltivando la cannabis per bonificare i terreni

Il 26 aprile del 1986, con l’esplosione del reattore numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl, ebbe luogo la più grave tragedia nucleare della storia dell’umanità, che causò – nel corso degli anni – una spirale di decessi ancora oggi difficile da quantificare.

La nube radioattiva costrinse all’evacuazione centinaia di migliaia di persone, e portò il governo a decretare il divieto di coltivazione per tutti i campi agricoli della regione, impregnati di sostanze tossiche.

Nel 1989 l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica effettuò uno screen dei terreni racchiusi nel raggio di 100 chilometri dal reattore: i risultati evidenziarono la presenza di materiale radioattivo e di altre sostanze tossiche—quali cesio 137, plutonio e stronzio, elementi fatali per la salute umana.

Negli anni successivi si moltiplicarono le iniziative di messa in sicurezza dell’area, tra trasferimento dei pascoli, introduzione di colture “resistenti” alle tossine, e progetti di bonifica per la riqualificazione dei campi.

Uno di questi – nel 1998 – fu quello della Phytotech, una società americana di biotecnologia ambientale, che assieme all’Ukraine’s Institute of Bast Crops avviò un progetto sperimentale basato sulla tecnica delfitorisanamento.

Come si legge sul sito dell’UNEP, consiste “nell’uso diretto di piante verdi viventi per la rimozione, la decomposizione, o il contenimento dei contaminanti nel suolo, nei fanghi, nei sedimenti e nelle acque superficiali e sotterranee.”

In pratica, si tratta di coltivare i terreni inquinati con alcuni tipi di piante che, in virtù della loro opera bonificante, assorbono le sostanze tossiche rendendole poi innocue.

Esistono una decina di piante in grado di svolgere questa funzione, dal girasole alla senape indiana, dal vetiver al pioppo, fino alla canapa. E nel caso di Chernobyl, venne utilizzata proprio quest’ultima.

Fu il primo esempio di bonifica ambientale tramite cannabis, e grazie ai risultati positivi raggiunti venne replicata in altre aree rurali del mondo infestate sopratutto da diossina—la sostanza tossica meglio assorbita dalle radici di questa pianta.

In Italia si è iniziato a parlare di fitorisanamento a partire dai primi anni duemila. Ad oggi sono presenti alcuni progetti sperimentali in giro per il paese, ma tra  Terra dei Fuochi, Brescia e Sardegna, l’iniziativa a uno stadio più avanzato è quella che riguarda la zona dell’Ilva di Taranto.

Non c’è bisogno di dilungarsi troppo sulla qualità dell’aria e dei terreni: basta dire che la perizia epidemiologica disposta dalla Procura di Taranto nel 2012 ha attribuito alle sostanze tossiche emesse dall’Ilva la morte di circa 11mila persone nei sette anni precedenti, per una media di oltre mille decessi all’anno—e non sorprende, in una situazione dove il piombo è stato trovato addirittura nelle urine e nel sangue dei residenti.

Nel 2002 l’Ilva di Taranto è stata ritenuta poi responsabile del 30,6 per cento delle emissioni nazionali di diossina, un valore che nel 2006 sale addirittura al 92 per cento se si considerano i dati del Registro INES.

Si spiegano così gli 11,72 picogrammi per grammo di grasso registrati da uno studio Peacelink nei capi d’allevamento della zona—il doppio rispetto ai valori consentiti. Questo ha portato negli anni all’abbattimento di decine di migliaia di ovini e bovini, come è successo a Vincenzo Fornaro, allevatore di terza generazione e proprietario di una masseria situata a pochi chilometri dallo stabilimento siderurgico.

Lui e la sua famiglia sono tra le vittimedell’ordinanza del 2010 che vieta il pascolo in un raggio di venti chilometri dall’Ilva, introdotto a seguito del cocktail di diossina, piombo, nichel ed altre decine di sostanze tossiche riscontrate tanto nei capi d’allevamento, quanto nel terreno locale.

“La nostra è un’attività familiare che si è sempre basata sull’allevamento, dal 1859” racconta l’allevatore a VICE News. “Poi ci si è trovati all’improvviso – e senza avere nessuna responsabilità – a dover cambiare attività.”

I seicento ovini di Fornaro sono stati prelevati ed abbattuti, senza che vi sia poi stata alcuna forma di sostegno istituzionale per la masseria. Fornaro e gli altri agricoltori dell’area si sono così dovuti organizzare con i propri mezzi, presentandosi parte civile in un contesto dove per molto tempo puntare il dito contro l’Ilva è stato un tabù.

“All’inizio di questa storia era praticamente vietato parlare di Ilva,” chiosa Fornaro “sia loro sia le istituzioni negavano un coinvolgimento dello stabilimento nel disastro ambientale in corso. Ecco perché ci siamo dovuti muovere da soli.”

Nel 2012 si arriva finalmente al processo, tuttora pendente: è in quello stesso anno che avviene l’incontro tra la masseria Fornaro eCanapuglia, un progetto culturale nato agli inizi del 2011 con l’obiettivo di diffondere il valore della canapa per l’uomo, l’ambiente e l’economia.

La masseria Fornaro ha messo a disposizione dell’associazione tre ettari del suo terreno per la sperimentazione del fitorisanamento tramite canapa, così da verificare l’effettiva bonifica da diossina.

È così che nasce C.A.N.A.P.A. (Coltiviamo Azioni Per Nutrire Abitare Pulire l’Aria), un progetto di ricerca pionieristico in Italia volto a testare l’efficacia della coltivazione della canapa nel ripulire il territorio agricolo limitrofo al polo siderurgico tarantino dell’Ilva. Oltre a Canapuglia, l’iniziativa è stata promossa da ABAP – Associazione biologi ambientalisti pugliesi – e dal Centro di Ricerca per l’Agricoltura.

“Il nostro è stato il primo vero esperimento in Italia sulle potenzialità della canapa nel meccanismo del fitorisanamento” racconta a VICE News Claudio Natile, Presidente di CanaPuglia. “Abbiamo scelto questa masseria perché era simbolo del danno ambientale, sociale ed economico che il siderurgico stava perpetrando sul territorio ionico.”

Data la natura sperimentale del progetto, è ancora impossibile stabilire se in futuro i terreni attorno all’Ilva potranno essere nuovamente coltivati ad alimenti o destinati al pascolo animale. Servirà infatti qualche anno per raccogliere i risultati e verificarne la coerenza con la vasta letteratura scientifica sul tema del fitorisanamento via cannabis.

Come però sottolinea Natile a VICE News, “possiamo già dire che la canapa va a migliorare la fertilità del suolo aumentando la frazione organica, va a lavorare il suolo agricolo in profondità con le sue radici, va a sequestrare otto-dieci tonnellate di CO2 ad ettaro e va a fissare il carbonio nel suolo, elemento fondamentale per mitigare i cambiamenti climatici.” Ecco perché il Presidente di Canapuglia sottolinea come basterebbe questo per promuovere la coltivazione su più larga scala.

Ma esattamente, come agisce la pianta di cannabis sugli elementi inquinanti presenti nel suolo?

La risposta ce la danno P. Linger et al., della Wuppertal University, nel paper Cannabis sativa L. growing on heavy metal contaminated soil: growth, cadmium uptake and photosynthesis.

“Le radici della cannabis mostrano un’elevata resistenza ai metalli pesanti, che gli conferisce la caratteristica di accumulatori di tali sostanze (più di 100 mg kg-1 nel caso del cadmio)”affermano gli autori, che sottolineano come le radici più giovani della cannabis raccolgano i metalli e li rendano innocui grazie alle fitochelatine—proteine citoplasmatiche prodotte in risposta a un eccessivo assorbimento di metalli pesanti, che hanno un effetto detossificante su questi ultimi.

“La canapa è una pianta tollerante ai metalli pesanti, con radici resistenti e una forte capacità di acclimatamento. Queste caratteristiche la rendono un candidato chiave per approcci di fitorisanamento” conclude il documento. Si tratta, questa, di una delle tante ricerche presenti a livello internazionale che confermano il potere bonificante della cannabis, attraverso questo giochino di assorbimento e detossificazione dei materiali inquinanti.

In Italia, uno dei massimi organismi impegnati nella ricerca in quest’ambito è l’International Laboratory of Plant Neurobiology di Firenze, che attraverso il suo presidente Stefano Mancuso collabora con diverse iniziative nel campo del fitorisanamento.

Un esempio è Ecofitomed, la prima società in Italia impegnata nella pianificazione di interventi di bonifica dei siti inquinati mediante l’utilizzo di specie vegetali—di cui Mancuso è responsabile tecnico.

Quella del fitorisanamento potrebbe costituire una piccola rivoluzione nel campo delle bonifica ambientale. “Una decontaminazione fatta in questo modo è molto economica rispetto ai processi tradizionali: si tratta di scegliere le piante, seminare, raccogliere e analizzare” spiega a VICE News Natile, il presidente di Canapuglia.

“Al contrario, la bonifica convenzionale prevede il prelievo di una porzione di suolo agricolo, il washing e poi la messa in discarica—in pratica, si spostano enormi quantità di terra che vengono poi slavate e depositate. Puoi immaginare quante industrie ci sono dietro.”

Da qui una certa resistenza da parte istituzionale a promuovere questa forma più economica e sostenibile di detossificazione dei terreni, che si scontra con un sistema storicamente prestabilito e basato su un giro di affari di milioni di euro.

Ma al di là della sua economicità, la prassi di coltivare terreni inquinati con la canapa ha anche una valenza sostenibile molto ampia.Come spiega Marcello Colao, ingegnere ambientale dell’ABAP e tra i promotori del progetto C.A.N.A.P.A., “le opportunità legate al nostro intervento sono numerose, sia a livello del settore occupazionale che di quello imprenditoriale.”

Tra queste, il sostegno all’auto-imprenditorialità e alla nascita di nuove piccole imprese artigiane legate ai derivati della cannabis, sopratutto nel campo dell’edilizia – con il mattone in calce e canapa – e del tessile.

Proprio riguardo a quest’ultimo, nel 2015 il progetto ha vinto un bando di concorso locale per la ristrutturazione di una barca e per la creazione di steccati in fibra di canapa. “Principalmente l’obiettivo è ripulire i terreni, ma anche creare una filiera ad hoc che si occupi della trasformazione della canapa offrendo peraltro nuovi posto di lavoro” racconta a VICE News Vincenzo Fornaro, il proprietario della masseria coltivata a cannabis.

Abbiamo chiesto ai ragazzi di Canapuglia quali sono gli obiettivi per il futuro. “Il sogno è di creare una green belt attorno all’Ilva, sull’esempio di quanto fatto in altre realtà urbane straniere,” spiega il presidente “chiaramente dal sogno alla realtà ce ne passa, tanto in termini di tempo che di burocrazia e ostacoli vari—sopratutto culturali.”

Qualcosa comunque sta cambiando, come dimostra il frequente via vai degli ultimi tempi – tanto della popolazione, quanto delle istituzioni – che vanno a visitare i campi e ad informarsi sul progetto. Un dinamismo che coinvolge anche il resto d’Italia, da dove arrivano sempre più chiamate ai responsabili di C.A.N.A.P.A. per la realizzazione di nuovi progetti pilota a ridosso di aree inquinate a diossina.

Il fitorisanamento non è però in grado di fareda solo. “Se l’Ilva continua a produrre 10 milioni di tonnellate e più di inquinanti, nessuna pianta né cintura verde potrà mai compensare questo inquinamento eccessivo” conclude Natile. “Se invece il siderurgico fosse convertito o tecnologicamente migliorato, in parallelo a una promozione di tutte quelle coltivazioni che vanno a fare fitorisanamento, è ovvio che in qualche decennio si potrebbe creare un territorio più vivibile.”

“Noi vogliamo stimolare un cambiamento che possa essere preso a modello da altri, perché chiaramente da soli non riusciremo mai a fare nulla di grande. Solo raggruppandosi a livello regionale e sovra-regionale si potrà stimolare qualcosa di buono.”