Sotto i ferri da sempre: la storia della chirurgia

L’uomo si è ingegnato per migliorare le proprie condizioni di salute a costo di dolorose e pericolose operazioni chirurgiche. Dalle perforazioni craniche del Neolitico alla tecnologia indolore del futuro. I passi da gigante di questa scienza salvavita.

 

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Forse la più antica pratica chirurgica di cui si abbiano testimonianze archeologiche, la trapanazione del cranio risulta largamente diffusa presso molte popolazioni preistoriche di diversa provenienza. La tecnica – che consisteva nel forare la calotta cranica in uno o più punti, forse in seguito a un trauma, per ridurre il dolore da compressione – era conosciuta già nell’area dell’attuale Europa nel 6500 a.C., come dimostra il ritrovamento, in un sito neolitico francese, di una quarantina di teschi perforati.

Le si attribuivano poteri a metà tra la medicina e la magia e molti dei soggetti “operati” in effetti sopravvivevano: intorno ai fori cranici si trova spesso nuovo tessuto osseo ricresciuto. La trapanazione fu praticata fino al Rinascimento, per ridurre l’emicrania e intervenire contro gli attacchi epilettici.

 

 

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Il dipinto, copiato dalla tomba di Ipi a Deir el-Medina, Egitto, raffigura un medico intento a curare un’infezione oculare.

I più antichi esperti di un intervento chirurgico oggi considerato di routine, quello alla cataratta, furono, probabilmente, gli Egizi: nella tomba del faraone Khasekhemwy, appartenente alla seconda dinastia (fino al 2700 a.C. circa) sono stati rinvenuti degli aghi in rame destinati probabilmente alla rimozione del cristallino opacizzato. Tale tecnica era comunemente praticata in India e Cina già otto secoli prima di Cristo e  conosciuta anche dagli antichi Greci.

 

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Cenni sulle antiche pratiche chirurgiche si deducono anche dai racconti mitologici. Qui, per esempio, vediamo (sulla destra in questo rilievo conservato ad Ercolano) Achille che cura Telefo, figlio di Eracle, dopo averlo ferito in duello con una lancia.

Secondo una tradizione culturale diffusa nell’antica Grecia, quella della magia simpatetica, solo chi aveva procurato una ferita sarebbe stato in grado di curarla. Così fece, nel mito, anche Achille, mettendo un po’ di ruggine sopra alla ferita inflitta a Telefo, che – miracolosamente – guarì.

 

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Anche la pratica del taglio cesareo si perde negli arbori della civiltà: già gli antichi romani avevano una legge che lo consentiva, solamente – però – qualora fosse stato necessario estrarre un feto da una donna già morta o in fin di vita.

Una tradizione diffusa, ma scorretta, attribuisce l’origine del termine “cesareo” a Giulio Cesare, la cui nascita sarebbe avvenuta, a quanto si dice, chirurgicamente. Ma stando a quanto prevedeva la legge romana è improbabile: si tramanda infatti che sua madre Aurelia Cotta visse abbastanza da apprendere dell’invasione della Britannia da parte delle truppe guidate dal figlio.

Il nome di questo tipo di parto deriverebbe invece dal latino caed?re, tagliare.

 

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Nell’epoca precedente l’avvento dell’anestesia, ben poco poteva essere fatto per ridurre il dolore dell’amputazione, una pratica utilizzata per fermare le complicazioni derivanti da una ferita di guerra e sbarazzarsi di un arto in cancrena.

Tra le infezioni post operatorie e le ingenti perdite di sangue non erano molti gli amputati che sopravvivevano all’intervento. Almeno fino all’introduzione della cauterizzazione, una tecnica appresa dagli Arabi e diffusa durante tutto il Medioevo che prevedeva l’utilizzo, per le operazioni, di ferri roventi, per favorire la coagulazione del sangue.

 

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Una luce nei primi, oscuri secoli di pratiche chirurgiche arrivò tra la fine del ‘700 e l’inizio del secolo successivo, con i primi esperimenti sull’uso di gas narcotizzanti durante le operazioni chirurgiche.

Il contributo più importante si deve a William T. G. Morton, medico e dentista di Boston, che nel 1846 utilizzò per la prima volta l’etere nel corso di un’estrazione dentale (qui raffigurata in un dipinto dell’epoca). Fu il paziente stesso ad accompagnare Morton alla redazione del Boston Daily Journal per raccontare gli effetti miracolosi (un semplice assopimento) del gas inalato.

L’etere fu, quello stesso anno, utilizzato da un altro medico, John Collins Warren, per l’asportazione di un tumore dal collo di un paziente, sotto agli occhi di un gruppo di scettici che – di fronte alla totale calma e rilassatezza dell’uomo operato – rimasero di stucco.

 

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I progressi della chirurgia rendono possibile, negli anni ’60, un intervento in cui nessuno prima d’allora avrebbe mai sperato: l’impianto di un cuore artificiale. È il 1969 quando Denton Cooley (nella foto), cardiochirurgo statunitense, primario del reparto di chirurgia del Texas Heart Institute, esegue per la prima volta il delicatissimo intervento su un paziente in condizioni disperate.

L’operazione avrà successo e consentirà al malato altre preziose 72 ore di vita, in attesa di un donatore compatibile. L’uomo morirà però per le complicanze del trapianto di cuore vero.

 

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Basta con i tagli da macellai: la maggior parte dei più comuni interventi chirurgici – per lo meno di quelli addominali – può ora essere compiuta con microincisioni poco invasive che minimizzano i rischi e consentono al paziente degenze più brevi.

Accade grazie alla laparoscopia (detta anche “keyhole surgery”, “chirurgia dal buco della serratura”), una tecnica nata nel 1987 grazie al chirurgo francese Philippe Mouret e ora ampiamente diffusa. Qui vediamo un chirurgo intento a seguire un intervento esplorativo attraverso un monitor.

 

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Dai primi interventi degli antichi Egizi ne è passata, di acqua sotto i ponti: ora per eliminare un importante difetto visivo è sufficiente un intervento al laser di qualche minuto.

Una delle tecniche più diffuse è la cosiddetta LASIK (Laser assisted In-situ Keratomileusis) una sorta di rimodellamento della curva della cornea (nella foto) che corregge i più comuni difetti visivi: miopia, ipermetropia, astigmatismo e presbiopia.

 

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Così come i tecnici della Nasa controllano, dalla Terra, comandi e movimenti dei rover spaziali, i massimi esperti mondiali di chirurgia possono oggi operare anche senza trovarsi fisicamente nella stessa sala operatoria in cui si trova il paziente.

E tutto grazie alla chirurgia robotica, un ramo di questa scienza di recentissimo sviluppo, che si avvale di complessi bracci meccanici comandati, da remoto e via monitor, da un chirurgo esperto, coadiuvato da un’equipe fisicamente vicina al paziente. In questo modo non è necessario che il chirurgo più abile in un determinato tipo di intervento si trovi nella stessa città, o nello stesso paese, del paziente che ha richiesto il suo aiuto.

Il più famoso, e il primo robot chirurgo mai brevettato si chiama Da Vinci ed è nato nella Silicon Valley nell’anno 2000.

 

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Il futuro della chirurgia farà sempre più spesso a meno del bisturi: la nuova frontiera degli interventi chirurgici si chiama chirurgia ad ultrasuoni e sfrutta fasci ultrasonici incredibilmente precisi, in grado di penetrare nei tessuti dei pazienti, insieme alla risonanza magnetica (come tecnica di visualizzazione) per trattare lesioni cerebrali, fibromi dell’utero e alcuni tipi di cancro senza bisogno di praticare alcun taglio.

Il principio è quello della lente di ingrandimento usata per concentrare i raggi solari su un singolo punto: focalizzando gli ultrasuoni nella zona da trattare si ottiene un aumento della temperatura che neutralizza il tessuto malato.

 

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I tablet entrano ufficialmente anche in sala operatoria: ad accompagnarli nel loro debutto è il professor Karl Oldhafer, chirurgo presso l’Asklepios Hospital di Amburgo, in Germania.

Sullo schermo del tablet un’applicazione in realtà aumentata ricostruisce virtualmente l’organo del paziente con tutte le informazioni necessarie all’esecuzione dell’intervento e le visualizza sovrapponendole all’organo reale che viene inquadrato dalla fotocamera del dispositivo stesso.

Dopo decine di test e operazioni simulate, il primo intevento dal vivo è stato condotto su un paziente al quale è stato rimosso, con successo, un tumore al fegato.